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colpa d'alfredo

Ho perso un’altra occasione buona stasera

di Francesco Massaro

“È andata a casa con il negro la troia”. Cominciamo da qui, da questa vecchia canzone di Vasco Rossi. Colpa d’Alfredo, 1980.

La storiella è esile: Alfredo lo distrae con le sue chiacchiere inopportune e lui perde un’altra occasione buona. Lei, la troia, va con un altro, il negro. E lui ci resta così male che si sfoga così. Il negro e la troia. C’è da diventare pazzi, ne converrete: l’amico prolisso che ti fa perdere l’occasione buona. 

Fine della storia.

La rabbia, ragazzi. Cosa ci fa fare la rabbia. Cosa ci fa dire. Succede, non siamo robot e a volte capita di straparlare, di andare sopra le righe, di non rispettare i diktat dei professorini che ci vogliono ubbidienti e rispettosi del linguaggio e del politicamente corretto. Ricordate In fila per tre di Bennato? Fare la fila per tre, risponder sempre di sì e comportarsi da persone civili.

Diciamoci la verità. Succede, altroché, di usare il termine troia senza connotazioni sessiste. Può succedere di dire negro senza intenti razzisti. Succede di parlare di un tizio e di chiamarlo frocio – indipendentemente dal fatto che lo sia o meno – senza che tu abbia qualcosa in sospeso con i gay. Storcete il naso, vi vedo. Ma questo è.

La verità è che ci è scappata un po’ la mano con questa mania del politically correct, che termine odioso, poi. Questo non si dice, questo non si fa. Soffro. Soffro perché sogno un mondo da liberi tutti, in cui in un momento così dici troia a una donna e il giorno dopo le porti un fiore, come Julio Iglesias un po’ pirata un po’ signore ma sicuramente professionista nell’amore. Poi che lei ti perdoni o meno è un altro discorso.

Vogliamo parlare della parola negro? Ma in cosa consisterebbe il disprezzo? Negro è un dato di fatto. Come bianco. Come giallo. Come alto o basso. Come magro o grasso. Ci fanno le pulci pure sui dati di fatto. Si dice “di colore”. E noi ci adeguiamo. Perché abbiamo paura, hai visto mai che qualcuno possa pensare che siamo razzisti.

Ci siamo scordati la libertà di poter essere chi siamo senza che qualcuno ci giudichi o ci fraintenda. Temiamo l’equivoco e facciamo i bravi. Non diciamo. Non facciamo. Lo spazzino diventa operatore ecologico. Il disabile diventa diversamente abile.

Un mio amico l’altro giorno mi scriveva di aver fatto pace con se stesso. “Oggi finalmente mi definisco frocio. Non gay, non omosessuale. Frocio”. Ho pensato a quanta meravigliosa liberazione ci fosse in quelle parole. Frocio. Ho sentito di volergli immensamente bene. Io però non posso dirlo. Mi capite? E lo capite quanto mi irriti il ricorso a termini come sindaca, assessora, ministra? È la morte della lingua italiana. Anche qui, vittime del boldrinismo dilagante. Ooops mi è scappato. Sono un fascista perché non amo i modi da professorina della Boldrini, lo so, vecchia storia. O perché non ho gridato allo scandalo quando la Nicolini, l’ex sindaco di Lampedusa, ha perduto le elezioni. O perché esprimo timide perplessità sugli sbarchi indiscriminati e incontrollati. Ma sono riuscito a fare pace con me stesso, come il mio amico frocio, e va bene così.

Qualsiasi cosa non vi piaccia va bollato come fascista. Avevo un’amica, è durata poco per fortuna, che chiama fascisti tutti coloro che si discostano dal suo sentire, dal suo modo di vedere le cose. Un trauma infantile, immagino. Fascista fascista fascista. E datti una calmata, bella mia.

Mi tornano in mente le censure dei solerti funzionari che quarant’anni fa ascoltavano le canzoni e decidevano questo sì, questo no. A Venditti fecero togliere quella parte in cui parlava di una che la dava a tutti tranne che a lui (Compagno di scuola). Finanche al prete spretato Baglioni censurarono la voglia di cose proibite (E tu). Però la troia e il negro di Vasco, da quel che ne so, non passarono mai sotto le forbici della censura. Per distrazione? Forse sì, o forse capirono che per rabbia si possono dire fesserie senza intenti discriminatori. Non lo so. Però mi piace pensarlo. Comunque. Sono passati trentasette anni e siamo messi peggio di allora. Vuoi vedere che ci tocca rimpiangere i bacchettonissimi anni Ottanta?

 


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